Ogni produzione mediatica mandata in rete è una leva straordinaria attraverso cui contrastare la violenza sulle donne, potenziando la conoscenza dei principi fondamentali della cultura democratica e del rispetto reciproco, della parità e dell’uguaglianza tra donne e uomini.
Ore 18.45. Rai Uno, rete ammiraglia del servizio pubblico. Ha inizio il programma condotto da Fabrizio Frizzi, l’Eredità. Lo stacchetto di presentazione lascia a dir poco allibiti: attorno a Frizzi, in seria giacca grigia, 4 ragazzotte lo contornano, sculettando sorridenti, con un abitino rosso che poco lascia alla immaginazione.
Tutto qui? No, nella puntata del 10 febbraio, il peggio deve ancora arrivare. Le “professoresse”, questo è il ruolo con cui Frizzi le presenta al pubblico, fanno un balletto di inizio e ricompaiono indossando un grazioso grembiulino da cucina e impugnando ciascuna una scopa con la quale, ballicchiando, rammazzano il suolo dello studio.
Un flusso di rabbia. Scusate care lettrici e lettori di questa rubrica: ma professoresse di che cosa? Scusi signor autore dell’Eredità, ma quale stimolo creativo ha ispirato questa sua chicca? Scusate, esponenti del nuovo management della Rai, servizio pubblico televisivo del nostro Paese, siete sicuri che questo sia il modo più corretto per dare attuazione alla ben nota policy di genere su cui la vostra azienda si è impegnata, accettando i 13 emendamenti che il network dell’Appello Donne e Media ha elaborato e proposto, ormai – ribadisco ancora una volta – in vigore dal 2011? Insieme alle giuriste, alle magistrate, alle dirigenti della pubblica amministrazioni, alle associazioni da sempre impegnate sui diritti delle donne, abbiamo fatto, e continuiamo a farlo, un faticoso lavoro di elaborazione e argomentazione sulla necessità di contrastare gli stereotipi riduttivi con cui vengono rappresentate le donne nei media. Grazie alla fitta opera di sensibilizzazione, anche delle istituzioni, siamo giunti al primo risultato importante, proprio con gli impegni che la tv pubblica ha accettato di assumersi siglando le nostre proposte. Tra esse, in vigore nel Contratto di Servizio, la carta che per legge (artt. 45-46 Testo Unico della Radiotelevisione) sancisce i doveri della Rai distinguendola dalle tv commerciali, vi è l’impegno ad attuare una programmazione “rispettosa della dignità umana, culturale e professionale delle donne” (art.2-comma3). L’azienda si è impegnata a “valorizzare la rappresentazione reale e non stereotipata della molteplicità di ruoli svolti dalle donne, anche nelle fasce di maggior ascolto” (art.2-comma3b). Qualcuno potrebbe evidenziarlo ai diversi livelli operativi?
A quale bizzarro ruolo di “professoresse”, scopa in mano e grembiulino annodato, fanno riferimento gli autori dell’Eredità, che notoriamente non si occupa di cucina? La situazione non migliora quando alle povere ragazze viene data la parola: una ciascuna, devono rendere omaggio alle 300 puntate del conduttore ed è tutta una profusione di “quanto sei bravo Fabrizio”, “quanto sono fortunata a lavorare con te” e via discorrendo, con un asservimento imbarazzante al protagonista maschile di turno. Sono questi i “fondamentali” con cui intendiamo partecipare al complesso confronto culturale che è in atto, a seguito dei processi di immigrazione, con la presenza sempre più numerosa di differenti religioni nella nostra società?
Scusi, signor presidente della Commissione parlamentare vigilanza, on. Roberto Fico, scusate onorevoli componenti della medesima Commissione preposta a vigilare sull’attuazione dei compiti della tv pubblica, ma come intendete vigilare sull’attuazione dell’impegno assunto dalla Rai (art 9-comma b) a “programmare trasmissioni idonee a comunicare al pubblico una più completa e realistica rappresentazione del ruolo che le donne svolgono nella vita sociale, culturale, economica del Paese, nelle istituzioni e nella famiglia, valorizzandone le opportunità, l’impegno ed i successi conseguiti nei diversi settori, in adempimento dei principi costituzionali”? Grembiulino e scopa in mano, per far da cornicetta al conduttore? Il fatto che sia loro attribuito il ruolo di “professoresse” è ovviamente un’aggravante forviante che non contrasta ma semmai rafforza lo stereotipo vecchio e retrivo con cui troppo spesso si rappresentano le donne nei media. E dire che il succitato impegno per “una più completa e realistica rappresentazione del ruolo che le donne svolgono nella vita sociale, culturale, economica del Paese”, è inserito non in un punto a caso del Contratto ma nell’offerta televisiva, vale a dire il cuore della Rai, i programmi considerati di servizio pubblico, quelli che dovrebbero dettare la differenza rispetto alle tv commerciali.
Abbiamo inviato un esposto all’attenzione della Commissione in cui chiediamo che una rappresentanza del network Appello Donne e Media – autori e promotori della riforma – venga udita insieme a una rappresentanza della Rai. È un confronto necessario e urgente che potrebbe dare un contributo costruttivo ad un possibile e auspicabile cambio di passo.
Ci rivolgiamo alla presidente della Rai, Monica Maggioni, al direttore generale, Antonio Campo Dall’Orto, ai membri del consiglio di amministrazione, chiedendo con urgenza la convocazione di un seminario di approfondimento, come quelli previsti nell’articolo 2, comma 3b, “seminari interni al fine di evitare una distorta rappresentazione della figura femminile, con risorse interne ed esterne, anche in base a indicazioni provenienti dalle categorie professionali interessate”. Un’occasione in cui analizziamo con capi struttura, autori, registi, direttoti di rete, i 13 articoli in vigore, illustrando le argomentazioni e i presupposti normativi, nazionali, comunitari e internazionali su cui abbiamo fondato tale elaborazione. Vi sono risorse straordinarie in azienda che potrebbero dare un grande contributo in tale direzione. Sarebbe un’occasione concreta per la tv pubblica marcare la sua specificità, in risposta al canone preteso in bolletta che, senza iniziative significative, rischia di essere mal digerito.
Questo è solo uno dei molteplici segnali con cui i media troppo frequentemente stillano nelle nostre menti i germi di una subcultura che impone l’equazione donna=corpo=oggetto. Difficile poi a un oggetto dire no, se non vuole fare sesso; arduo guadagnare la stessa cifra di un collega uomo, pur ricoprendo il medesimo ruolo; quasi impossibile finire una relazione serenamente, se non ama più. Ogni anno è un’ecatombe di morte ammazzate, bruciate, sfregiate, umiliate per mano dei loro ex. Anche questo ci dovrebbe far capire la rilevanza della questione culturale, dell’immaginario collettivo da cui sia giovani che adulti traggono ispirazione per seguire i modelli considerati vincenti.
Ogni produzione mediatica mandata in rete è una leva straordinaria attraverso cui contrastare la violenza sulle donne, potenziando la conoscenza dei principi fondamentali della cultura democratica e del rispetto reciproco, della parità e dell’uguaglianza tra donne e uomini.
La Convenzione di Istanbul, in vigore dal primo agosto 2014 in Italia, all’articolo 17, sancisce con chiarezza il ruolo che i mezzi di comunicazione hanno nella formazione di un nuovo corso culturale, in grado di contrastare l’inaccettabile equazione donna=ornamento, che dilagano ovunque. I contenuti mediali hanno assunto il dono dell’ubiquità grazie alla convergenza fra tecnologie e sono formidabilmente penetranti. Occorre agire, a partire da queste leve.
Non ci daremo pace finché non saremo in grado di innescare una presa di coscienza della politica tutta, delle Istituzioni, delle grandi reti audiovisive e multimediali, in primis della tv pubblica, della società, tutti chiamati a raccolta per un’azione comune strategica che punti ad un rafforzamento culturale. Occorre un’Alleanza per un patto di azioni.
Ci rivolgiamo al nostro Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Le sue parole di inizio anno hanno acceso le nostre aspettative con il “pensiero di riconoscenza a tutte le donne italiane che fanno fronte – ha dichiarato – a impegni molteplici e devono fare ancora i conti con pregiudizi e arretratezze, con una parità di diritti enunciata ma non sempre assicurata, con soprusi e violenze”. Signor Presidente, le chiediamo di aiutarci a realizzare questo cambio di passo culturale. Non solo per le donne ma per il futuro di tutta la società, affinché essa non disperda una parte rilevante di sé. Facciamo in modo che il prossimo 8 marzo vada oltre le consuete – ma poco incisive – celebrazioni.