Cari giornalisti, siamo sicuri che questo sia il modo più giusto per raccontare l’Italia?

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Notizia = solo violenza o disastri?
Notizia = solo violenza o disastri?

Povera Italia. Non posso trattenermi, sfogliando on-line i giornali di oggi. Ovunque corruzione. Come se non bastasse quella attuale, si evoca (o celebra?!) anche quella del ’92, che in confronto ad oggi fa sorridere, ma che tante ombre ancora getta sulla ricostruzione di un paese azzoppato anche grazie a quell’operazione che, di Mani Pulite, non sembra aver lasciato la sperata eredità.

Povera Italia. Fotografata sempre nella peggiore delle angolature, in modo che solo i difetti risaltino bene in vista. Eppure andando in giro nel nostro vituperato paese, continuo a incontrare persone straordinarie. Storie di competenza, di ricerca, di capacità, di intraprendenza e di umanità incredibili che però non trovo da leggere o da ascoltare in Tv, mai da nessuna parte. Come è possibile?

Poi l’occhio è attratto da una “notizia” con tanto di titolo, occhiello, foto, e citazione di tweet. È L’ultima del senatore Razzi: “Buona Pascuetta”, auguri con errore. Il cinguettio diventa subito virale. La fotostoria.

La fotostoria? Mi sale la rabbia. E penso a quella ricercatrice che in un grosso ente nazionale ha rischiato una procedura d’infrazione per attivare i passaggi necessari al suo brevetto. Penso a quella studentessa universitaria, con i capelli ricci, che in una conferenza mi chiese: “Io li cerco altri modelli da emulare, ma dove li trovo”? Penso a quando, da ufficio stampa di un piccolo partito, faticai a far passare gli esiti di uno studio-proposta elaborato da riconosciuti esperti, dopo mesi di ricerca in tema di ripresa economica, occupazione, investimenti: “non fa notizia”, mi rispose uno zelante collega della stessa testata che oggi riporta fieramente la “notizia” degli auguri di Razzi, con la “c”.

Ma cosa fa notizia sui benedetti organi di stampa italiani, cari colleghi? Qualche giorno fa ho preso parte ad un convegno-seminario, a Napoli, organizzato dall’Ordine dei giornalisti della Campania dal titolo “Se Steve Jobs fosse nato a Napoli ‘non’ avrebbe fatto il parcheggiatore”. Insieme al presidente e il vicepresidente, su iniziativa dei colleghi Alessio Postiglione, Salvatore Santangelo, Alessandro Sansoni, ci siamo interrogati sulla “gomorrizzazione mediatica del Sud”. L’iniziativa si è svolta presso l’Auditorium di Eccellenze Campane, dove le Startup vengono accudite e accompagnate verso un percorso che le renda imprese capaci di navigare nel mare magnum della competitività. Abbiamo conosciuto diversi ragazzi e ragazze le cui esperienze avrebbero davvero un potenziale narrativo accattivante, solo a volerne parlare. Ma niente: “non fanno notizia”.

Non sto evocando o invocando la rimozione delle criticità di un sistema. Denunciare, informare è un diritto sacro e inviolabile. Quello su cui è urgente riflettere è la narrazione complessiva che in finale si offre. Quali input si costruiscono nelle caselle che compongono necessariamente il variegato mosaico della realtà , con tutti i chiaro-scuri che essa offre.

Denunciare la corruzione, si, ma anche fornire, con altrettanto zelo, l’altra parte della realtà, quella che miracolosamente continua a impegnarsi, a creare, a studiare, a produrre. C’è qualcosa che neanche le più ardite riforme politico-economiche possono fare con la stessa forza con cui i mezzi di comunicazione potrebbero attivarsi: riaccendere la fiducia collettiva in un futuro migliore, a patto di meritarlo, non solo la speranza, dunque, ma una fondata fiducia.

L’immaginario collettivo è il motore che può mettere il turbo oppure assopire mortalmente l’anima di un’Italia che oscilla tra ardore e pigrizia, tra sogno e disillusione, tra affermazione delle capacità e nepotismo. La narrazione di un paese non è neutrale a determinarne la percezione reale, al suo interno ed esterno. Quello che si scrive, gli articoli, i libri, il cinema, la tv, le fiction, i manifesti, la pubblicità, il tutto amplificato con effetto virale sul web, sono potenti “evidenziatori”, in grado di modellare come creta la percezione della realtà, contribuendo alla sua stessa costruzione. E oggi la convergenza delle piattaforme tecnologiche rafforza all’ennesima potenza tutto ciò, dando ai contenuti il dono soprannaturale dell’ubiquità. È spaventosa la responsabilità che investe i protagonisti dell’informazione e della comunicazione.

Oggi più di ieri. Vale la pena fermarsi e rifletterci su.

Siamo sicuri che questo che stiamo comunicando sia il modo più giusto per raccontare l’Italia?

A volte, la sensazione è che si indugi con troppa solerzia sui bassifondi della qualità umana, in ogni settore. Allora il senatore che sbaglia la Q ruba la scena a quello che magari ha presentato una proposta utile; Genny ‘a carogna strappa il titolo alla start up innovativa che potrebbe anche creare nuovo lavoro, e così via in un processo strisciante di abbassamento del capitale umano.

A chi conviene tutto ciò? Forse neanche ai voraci acquirenti che si stanno leccando i baffi a fare shopping dei tesori italici, come in un grande outlet. Dovrebbero pensare che non esiste azienda, prodotto, infrastruttura italiana che non basi il suo vero quid pluris sull’essenza stessa dell’italianità, che è quell’unico, irripetibile capitale culturale, storico, artistico-creativo, sedimentato in secoli e secoli irripetibili. Perso quello, il resto varrà ben poco.

A nessuno, e soprattutto a noi italiani, conviene restare indifferenti. Voltare pagina si può, se solo si vuole. Questo spazio che la redazione de L’Huffington Post mi consente di animare nasce proprio con l’intento di sviluppare il dibattito sul tema del rapporto tra i mezzi di comunicazione e il progresso sociale. Sono rimasta molto colpita da un editoriale in cui la fondatrice, Arianna Huffington, ha lanciato la proposta “metti una buona notizia in prima pagina” e non si riferiva certo alle solite “storie commoventi, imbarazzanti, o di adorabili animaletti , ma della volontà di presentare con regolarità storie di persone e comunità in grado di fare cose straordinarie, di superare grandi problemi ed elaborare soluzioni alle difficoltà concrete. Gettando luce su queste esperienze, puntiamo a creare un contagio virtuoso che ne diffonda l’adozione”.

Da qualche parte lungo la strada, il nostro concetto di notizia è diventato sinonimo di violenza, distruzione, disastri, corruzione. Personalmente non mi stanco di ripeterlo. Quanti Leonardo 2.0 o 3.0 avremo in futuro, dipenderà anche dalla dieta mediatica di cui ci alimenteremo. E come pensiamo di formarne di nuovi, se andranno a scuola di becerismo quotidiano, somministrato in dosi di talent volgari, di sport contornato da risse, in un giro di “amici miei”, isole famose, pacchi da indovinare, riflettori sul peggio? Non credo che la “c” di pascuetta possa far cambiare direzione alla società. Cerchiamone un’altra, prima che sia troppo tardi.

Proprio dal Sud potrebbe partire una staffetta tra gli ordini dei giornalisti. Nella Carta dei Doveri, il giornalista “è responsabile del proprio lavoro verso i cittadini e deve favorire il loro dialogo con gli organi d’informazione… creare strumenti idonei, dando la massima diffusione alla loro attività”. Perchè non inserire che il giornalista debba anche “impegnarsi a dare, in ogni occasione, il massimo risalto alle iniziative positive che i cittadini contribuiscono a realizzare, nei diversi settori delle attività sociali, economiche, culturali”?

Cari colleghi, facciamo partire un staffetta in cui ogni ordine regionale dei giornalisti si passi la fiamma di questo intento, come i tedofori di una nuova Olimpiade della narrazione collettiva, in cui ciascuno contribuisca a costruire la conoscenza di una realtà più completa, meno stereotipata e quindi migliore del nostro paese.

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