Tra Immagine e Realtà: è caro il Prezzo che le Donne pagano alle Distorsioni della Società

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Care Amiche lavoratrici, di ogni livello e settore, state serene: dal 2 novembre e fino alla fine dell’anno, lavoriamo tutte gratis. Non vi stupite, è l’effetto del Gap retributivo tra donne e uomini, pari al 16,3% nella media europea. Per questo la Commissione Europea s’è desta e proprio in queste ore ha stabilito l’Equal Pay Day, come riportato anche dal quotidiano la Repubblica, per contrastare una discriminazione inaccettabile.

Ma di quale Parità parliamo? È ora di raccontarci la verità: è troppo caro il prezzo che le donne ancora pagano ad una società distorta che non riesce neanche lontanamente a valutare il potenziale femminile al pari di quello maschile. Dobbiamo avere il coraggio di dirlo e spiegarne le ragioni, dati alla mano. In Italia, in particolare, siamo ben lungi dagli obiettivi che da decenni le donne perseguono per ottenere ruoli, retribuzioni, rispetto, onori e oneri equamente condivisi con gli uomini. Crisi o non crisi, nel nostro Paese circa il 20% in meno delle donne, rispetto agli uomini, ha un lavoro. Questo significa che vi è un 20% di donne in più che non hanno autonomia finanziaria e quindi dipendono da qualcun altro, con tutte le conseguenze che ciò implica anche sulla possibilità di esprimersi e far valere le proprie idee o capacità, monetizzandole nel mondo del lavoro. Secondo i dati Eurostat, nel 2013, la media del tasso di occupazione in Europa per le donne è stata del 58,8% e per gli uomini del 69,4%. Ma l’Istat, con gli ultimi dati 2015, ha evidenziato come il Gap in Italia sia giunto ormai a livelli di guardia: a febbraio 2015, il tasso di occupazione maschile è stabile al 64,7%, quello femminile in calo al 46,8%. Altre 42.000 donne sono rimaste senza un lavoro (-0,4%).Non parliamo delle sfere apicali dell’occupazione. Nel nostro Paese, a livello di quadro, è donna solo il 41, 6% contro il 58,3% di uomini. Dipendenti a tempo pieno? 31% donne e 62,8 % uomini. Autonomi a tempo pieno? 25,1% donne e 74,9% uomini. Part-time? 80,7% donne, ovviamente, e 19,2% uomini.

Attenzione a non farsi illusioni. È dall’intersezione con questo scenario qualitativo che occorre leggere il dato reale del Gap retributivo che grava sulle lavoratrici: infatti il valore medio del 7% circa, non tiene conto delle disoccupate, da noi molte di più che la media europea. Se le consideriamo, il divario tra le entrate degli uomini e delle donne in Italia è del 45% (fonte Eurostat): vuol dire che per ogni 1.000 euro guadagnati da un italiano, un’italiana può contare solo su 550 euro. Il Gap retributivo aumenta ulteriormente se si fa riferimento alle sfere dirigenziali e apicali, a parità di ruolo svolto e skills offerte. La recente campagna di genere “Punto su di te”, proposta da Pubblicità Progresso con una brillante performance messa in scena nello spot, mette in luce in modo netto quanto sia bruciante questa realtà. Anche la gravidanza non può diventare un onere che grava sulle donne, come ha evidenziato in queste ore Papa Francesco, come se l’interesse alla procreazione non riguardasse tutta la società.

Dunque, Gap retributivo. Gap occupazionale. Violenza sessuale che non cenna a diminuire, anche tra minori. Omicidi in aumento a danni di donne, malamente tradotti in “femminidici”. Perché è così difficile un’inversione di rotta?Perché è così arduo valutare le capacità e la preparazione di una donna al pari di quella di un uomo? Percezione-valutazione: un binomio essenziale. È possibile una parità di valutazione tra uomini e donne se ciascuno di noi non ha a disposizione gli strumenti culturali per una parità di percezione? Eppure è noto che proprio sulla percezione che abbiamo di un bene ci basiamo per valutarlo. È la vecchia legge della Domanda e dell’Offerta su cui si fondano i dogmi del mercato e della comunicazione. Però sembriamo dimenticarlo quando ciò riguarda le donne. Se tutti gli input culturali ci spingono ad una visione riduttiva dei molteplici ruoli che le donne svolgono nella società, come è possibile recuperare una consapevolezza diversa? Se le donne sono rappresentate per lo più come mero ornamento, ridotte a oggetti del desiderio dalla pubblicità come dai media in generale, sarà mai possibile contrastare i danni perpetrati degli stereotipi che abbiamo introiettato? Il ruolo della narrazione è fondamentale. Il bagaglio culturale della società è sempre più condizionato dai messaggi mediatici che ormai hanno assunto il potere dell’ubiquità grazie alla convergenza delle tecnologie e quindi sono molto più presenti e pervasivi nella vita e nella formazione di ciascuno.

La ricostruzione di un immaginario collettivo plurale delle donne è dunque un elemento cruciale per abbattere le disparità. Occorre che tutti gli input culturali e mediatici restituiscano alla collettività una rappresentazione variegata e realistica della molteplicità dei modelli femminili esistenti. Nessuna selezione o censura di un tipo di donna rispetto ad un altro, ma che ciò valga per tutte le realtà. Proprio nella pluralità dei modelli raccontati sta la chiave di volta per il superamento degli stereotipi.
Tv, stampa, pubblicità, web, in primis Rai, la Tv pubblica, devono fare un salto di paradigma e riuscire a sperimentare nuovi linguaggi e più creatività per dare risalto alle donne che crescono, vivono e si impegnano sui diversi fronti della vita sociale, culturale ed economica del paese.

L’ Appello Donne e Media, il network che dal 2009 ha acceso i riflettori sui danni provocati dagli stereotipi e ha proposto una serie di iniziative per la responsabilizzazione dei media realizzando la prima riforma di genere della Tv pubblica, ha chiamato a raccolta nei giorni scorsi a Roma, nella sede di rappresentanza del Parlamento Europeo, esperti nazionali attorno al tema: “Plurale Femminile, il valore dell’immaginario. Tv, Media, campagne pubblicitarie raccontano la realtà delle donne”? Su questo cruciale snodo, in collaborazione con AIDDA, Associazione Imprenditrici e Dirigenti d’Azienda, con Key4biz, quotidiano online sulla digital economy, e con l’Osservatorio Interuniversitario di Genere, abbiamo aperto un tavolo di lavoro che ha coinvolto le istituzioni nazionali e territoriali, tra gli altri il nuovo management Rai, il centro di ricerca Censis, Pubblicità Progresso, l’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria, l’assessorato alle pari opportunità della regione Lazio, il Bic Lazio. Le prime conclusioni le ha tratte la consigliera nazionale di parità, Francesca Bagni Cipriani, che ha esortato le produzioni televisive, in primis la Rai, a “investire in programmi più consapevoli su questo fronte e più attrattivi soprattutto per i giovani”.

Quando a marzo 2015, il Governo Renzi ha inviato all’ONU, per la 59esima “Commission on the Status of Women” svoltasi a New York, un rapporto in cui ha citato le proposte dell’Appello Donne e Media, ha mostrato un’apertura su questo tema ma ora è urgente una spinta ulteriore per attivare un’azione efficace sul piano della rimozione degli stereotipi di genere. Per questo il Gruppo di lavoro dell’Appello Donne e Media ha avviato una road map di iniziative, con l’obiettivo di costruire una proposta concreta per contribuire a modificare il trend di una società che, sottovalutando il potenziale delle donne, perde una chance cruciale per l’auspicata quanto difficile ripresa economica.
Abbiamo un gran lavoro da portare avanti. Su questa rubrica che animo per riflettere sul rapporto tra mezzi di comunicazione e progresso sociale, vi proporrò di conoscere più da vicino le straordinarie personalità che hanno dato il via al dibattito #PluraleFemminile, di cui vi proponiamo una sintesi in questo breve video. Sul canale YouTube Appello Donne e Media, i contributi video di ciascun relatore. Il Gruppo di lavoro che abbiamo promosso è un cantiere aperto per raccogliere idee e proposte concrete. Siamo ad un passo dalla riforma Rai, abbiamo un nuovo protagonista della produzione e distribuzione audiovisiva entrato a competere sullo scenario nazionale, come Netflix: per il governo Renzi, per la politica tutta, per gli organi di informazione e di produzione culturale, è doveroso interrogarsi sulle scelte opportune da compiere affinché la società riesca a valorizzare in ogni modo il patrimonio culturale, sociale ed economico offerto dalle donne. Rivolgiamo un’accorata domanda al nostro Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, garante della Costituzione: perché la figura di ministro delle pari opportunità è stata abolita dal governo Letta in poi? Date le condizioni gravi e tangibili del Gap donne-uomini nel nostro Paese, come è possibile sostenere che non sia più necessario un tale riferimento istituzionale?

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